Le riviste letterarie italiane (1945-1946)

Le riviste letterarie italiane I-Erudizione e Illuminismo, «Il Mondo», a. I, n. 12, Firenze, 15 settembre 1945; Le riviste letterarie italiane II-«Il Caffè», ivi, n. 13, 6 ottobre 1945; Le riviste letterarie italiane III-«La frusta letteraria», ivi, n. 17, 1 dicembre 1945; Le riviste letterarie italiane IV-«L’Osservatore», ivi, n. 21, 2 febbraio 1946. Il primo articolo, Erudizione e Illuminismo, non sarà mai ripubblicato, gli articoli successivi saranno ripubblicati in W. Binni, Critici e poeti dal Cinquecento al Novecento, Firenze, La Nuova Italia, 1951, 19693.

Le riviste letterarie italiane

I. Erudizione e Illuminismo.

Anche l’erudizione minuta e formichesca, che tornerà trionfante e miope nel periodo del positivismo ottocentesco con il suo lindore insipido, con la sua onestà sterilizzata, entra nel tono del Settecento a portare la sua distinzione accurata dalle ingegnose trovate, dal fasto spagnolesco e pigro, dal canto turgido di una pseudoclassicità esaltata e cavillosa. E l’erudizione, che già si era affacciata giornalisticamente, con fede cioè di divulgazione e di collaborazione, con il primo giornale dei letterati di Roma (1668), eco della cultura gesuitica del «Journal des Sçavans», si colora sempre piú, proprio in quanto si fa piú vogliosa di diffusione e di discussione, di una curiosità letteraria, di un edonismo che si capovolge in gusto di precisione, in amore di cognizioni di cui nutrire la propria letteratura. Poiché secondo una rivista del medio Settecento: «nulla meglio di un giornale può formare nella mente quella universalità di cognizioni, che in un uomo di lettere si richiede, cognizioni dette opinioni che insorgono, degli errori che si dileguano». Sí che il letterato immerso in questo diffuso ed iniziale bagno di illuminismo amerà attraverso i giornali letterari le cognizioni del sistema newtoniano, magari le illustrazioni sapienti delle monete romane, come un letterato dopoguerra era in dovere di conoscere psicanalisi e dadaismo. E cognizioni europee perché mai e con piú fervore innocente si parlò d’Europa e si attuò su quei fogli dai titoli promettenti («Grande giornale d’Europa», «Giornale oltramontano») una piú candida e immediata unità fatta di memorie scientifiche, di rendiconti, di bollettini accademici che sembravano ignorare le guerre che intanto dividevano i vari Paesi. «Ollmütz: Attende attualmente il sig. Butkardo ad illustrare il tesoro nummario del Regno di Boemia e questa sua illustre fatica è tanto inoltrata che in breve la potrà dare alle stampe». Questo leggeva l’uomo di lettere mentre infuriava nel centro d’Europa la guerra dei sette armi. In questa mansueta aria europea (prima di ogni europeismo, prima di ogni Benda) le riviste letterarie italiane, che mediavano, e non sempre volontariamente, la mentalità illuministica occidentale all’illustre provincia che si era fatta tale nell’isolamento controriformistico, contribuivano a creare quella nozione di letteratura che unisce sul piano della sincerità e dell’onestà i riconoscimenti scientifici e le indagini piú propriamente letterarie liberando queste ultime del peso della propria inutilità retorica, per far risorgere da una concretezza ostinata e mediocre una utilità della poesia nutrita di umanità e guida del mondo romantico: proprio quella poesia che l’illuminista-romantico Diderot dirà «quelque chose d’énorme et de barbare».

Cosí, prima del trionfo vero dell’illuminismo in Italia, le riviste lo preparavano attraverso la loro erudizione europea («Giornale dei letterati di Venezia», «Osservazioni letterarie», «Novelle letterarie», ecc.) e davano a tutta la nostra Stimmung letteraria un calore e una precisione nuove: con tanta poca letteratura, con tanto poco sforzo di originalità ad ogni costo, di mestiere, con un’aria di innocenza virile, che fa risaltare tanta assenza di presunzioni di fronte a certe facili aure poetiche che proseguivano il dilettantismo seicentesco. Per un po’ di Zappi quanta sottomissione al peso di lavori senza sonorità. E quale inestimabile apprendistato di precisione e di concretezza che trovò i suoi frutti in Parini e in tutta una tradizione di nuovo classicismo sensistico.

Vennero poi i giornali piú chiaramente illuministici, che, lindi ancora di precise incisioni di monete e di grafici astronomici, si evolvono in pretese piú filosofiche di una civilizzazione e di un progresso mondiale che all’odorino di muffa di storia locale, di erudizione, aggiunge odori piú forti ed orgogliosi, sí che in questo secondo Settecento una rivista definirà i giornali letterari «le storie piú autentiche dello spirito umano».

II. Il Caffè

«La diffusione dei giornali – dicono i compilatori del Caffè nell’articolo di presentazione – fa che gli uomini che in prima erano Romani, Fiorentini, Genovesi o Lombardi ora sieno tutti presso a poco Europei». L’ingenua fede europea alimentata dall’uguaglianza di interessi eruditi degli archeologi e dei numismatici si fa piú concreta e civile in questi letterati che si proponevano come fine del loro foglio quello di «spargere delle utili cognizioni fra i nostri concittadini divertendoli come già altrove fecero e Steele e Swift e Addison e Pope», indicando cosí i loro modelli di civiltà letteraria e portando in luce per la prima volta quell’intima disposizione lombarda ad una pratica di illuminismo militante che non abbandonerà piú la regione di Cattaneo. E proprio questo impasto cosí naturale di lumi entusiastici, ma scesi in mezzo alle operazioni piú precise e terrene, e di milanese fervore (con quel tanto di praticone e di troppo sicuro e perfino a volte di ottuso che comporta un’aderenza cosí intera alla tecnica della civitas), costituisce sempre il punto in cui simpatia umana e gustosa attenzione si incontrano alla lettura di queste prose cosí fresche e combattive. Come la leggera cornice cosí poco raffinata e pure a suo modo pallidamente poetica (quella bottega del Caffè linda e odorosa in cui si incontrano illuminati e uomini qualunque – absit iniuria verbo –, torpidi benpensanti e sensibili progressisti in una lieve trama scenica di ingenua efficacia, con signori sconosciuti che di colpo rivelano le loro brillanti qualità e lasciano a bocca aperta i rappresentanti dei luoghi comuni, con il levantino Demetrio, generoso e impeccabile, che trascina la sua zimarra da Lettres persanes e la sua autorizzata originalità di orientale in un milieu di dormienti ai quali il caffè porta la sua eccitazione di facile simbolo settecentesco di modernità attiva e disinvolta nelle volute del suo profumo di moda esotica) ci fa sentire che siamo pur sempre in mezzo a dei letterati. Ribelli sí, amanti del concreto e della statistica, precursori della piú ambrosiana praticità, ma letterati che amano un’aria di gusto intorno ai loro articoli e che perfino al loro linguaggio efficace (cose e non parole) adibiscono inflessioni poetiche proprio nella sua rapidità spregiudicata: piú valida di tanta prosa toscaneggiante di quegli anni ’64-66, in cui i soci della Società dei Pugni prolungarono piú utilmente le loro letture e le loro discussioni di Casa Verri (di cui ognuno possedeva una chiave, usufruendo a piacer suo del silenzio o della compagnia che vi si radunava) nella pubblicazione del foglio illuministico.

Ma è proprio tutta aria illuministica quella che circola attraverso il Caffè e lo rende cosí odoroso di profumi diversi e perfino bizzarri nell’alito costante di una bonaria e decisa umanità civile? Non è solo qualche traccia di grazia arcadica e l’eco di un mondo di relazioni frivole e affascinanti nelle loro misure brevi e perfette a sensibilizzare le discussioni progressiste, i vari Templi dell’ignoranza o gli Elementi del Commercio o il Saggio d’aritmetica politica o i moralistici e scherzosi Intorno alla malizia dell’uomo, Della bugia ecc., né l’esatta indagine sensistica nei suoi limiti piú autorizzati bastava a far vibrare certe venature di «sensiblerie» che, con le piú sottili conseguenze di uno stile preciso e brioso, con il vigore libero di un giornalismo di vera cultura, creano certi impasti di lingua che superano il piacere di una programmatica rivolta alla pedanteria, di una Rinunzia avanti notaio degli autori del presente foglio periodico al vocabolario della Crusca. E un incanto di questa lettura nasce appunto dalla ricchezza di spunti preromantici che si celano a volte in «raffinati scherzi sensistici» (Frammento sugli odori), in paradossi che esitano fra la «causerie» illuministica e il nuovo sentimentalismo o spuntano ancora equivoci da ragionamenti pieni di intenzioni utilitarie e civili (come nel discorso del Lambertenghi sulle Sepolture) oscillando fra virtú del buon cittadino e sensibilità di animi istintivi. Ma piú spesso, come la piú decisa intonazione illuministica e la piú ricca è portata da Pietro Verri, l’aura preromantica si leva dagli scritti paradossali e appassionati del giovane Alessandro Verri (era allora un moins de vingt-cinq ans e aveva tempo di evolvere ad esperienze piú direttamente romantiche e neoclassiche), che, con uno stile alla brava, un po’ a mano libera, combatteva contro ogni aridità in favore del «cuore» e degli «errori utili», quasi delle leopardiane «illusioni». Letterato come «âme sensible», letterato come riformatore progressista: questo coesistere di elementi illuministici in pieno rigoglio e di succhi preromantici offre una singolare durata al concetto di letteratura attuato dal Caffè, tanto da sembrare vivo anche ai tempi romantici del Conciliatore. Letteratura fiduciosa ed umana, di tempi non burrascosi, ma intensi ed onesti: e concreta preparazione di nuova civiltà e di nuova letteratura.

III. La Frusta letteraria

Quando Gobetti intitolò la sua rivista torinese Il Baretti non era solo l’immagine del piemontese, ostinato nella sua onestà dura e sanguigna, che egli intendeva offrire alla sua opera di nuovo riformatore, di rivoluzionario liberale, ma era soprattutto il profilo di una concretezza individualizzante senza di cui ogni cambiamento anche radicale doveva apparirgli illusorio. E difatti tra le voci di quegli anni felici (gli anni del secondo Settecento attivo ed elegante, accademico e progressista, ricco di germi vitali che si sarebbero poi sviluppati o seccati al vento della rivoluzione francese), la piú originale e vigorosamente umana è quella della Frusta letteraria che tra il ’63 e il ’65, dal suo falso indirizzo di Rovereto, di Ancona, agitò la sua furia inquisitoriale con una violenza che non era piú, pur non essendone del tutto esente, quella del vecchio gusto italiano di pamphlet accademico e linguaiolo e che nella socievole atmosfera letteraria, ricca di cortesie nobiliari ed auliche, portava il brontolio del prossimo temporale alfieriano. Non era la parola educata anche se audace del Caffè (con cui il Baretti se la prese rabbiosamente e ingiustamente vedendo in quel giornale e specialmente nel Verri una stanca e boriosa ripetizione di un illuminismo esteriore e pretenzioso) e veniva da un’esperienza vitale e civile che ad una solitudine almeno intenzionale aggiungeva un gusto di durezza e di praticità ignoto alla nostra tradizione letteraria, come insolito era quella specie di liberalismo conservatore risentito e combattivo, attaccato al passato e al costume morale e religioso, aperto ad ogni concreta riforma che avesse il suo riferimento ad un empiria immediata, non programmatica ed insapore. Era la espressione dell’esperienza vigorosa e personale di un illuminismo estremamente concreto e sostenuto da una vitalità economica e sociale potentissima (dietro Pope ed Hume c’è il commercio londinese e la combattuta prosperità delle nuove colonie inglesi) ed era la espressione della nuova borghesia italiana, del letterato non cortigiano e non salottiero (anche se ancora propenso per buon gusto ad apprezzare l’eleganza di una vita frivola ma ben educata) che poteva benissimo rimanere attaccato alla tradizione morale e religiosa del suo paese, condizionandola però ad un suo concetto di vita attiva, aperta, pratica. Donde in questi fogli, tutti animati da una voglia combattiva freschissima, anche se spesso petulante ed ingiusta (come negli attacchi maniaci contro il Goldoni), risuona la voce di un estremismo del buon senso, nell’eliminazione di ogni vuoto formalismo e di ogni fiacchezza morale, insufficiente ed equivoco di fronte a valori puramente estetici misurati nella loro possibile traduzione morale e rudemente vitale, vivo nei limiti di una empiria che giunge fino all’accertamento di una drammaticità di affetti, di una congeniale potenza individualizzante della fantasia (la scoperta di Cellini, la valorizzazione di Shakespeare), con un’approssimazione potente di quello che sarà il nucleo centrale di tanto romanticismo specialmente italiano: il carattere individuato, la situazione non generica come cellula artistica essenziale. Questa violenta figura rivoluzionaria e tradizionalista (come ugualmente nella Frusta si nota un impasto interessante di europeo pronto a colpire i pregiudizi italiani e di italiano geloso della sua patria e della sua religione ed ostile alle forme piú estreme di un’illuminismo razionalistico, voltairiano) entrava brusca e perentoria con tutta la sua originalità e la sua bizzarria bisbetica (che era poi il suo legame piú facile con il Settecento per il suo carattere di eccezione tollerabile in un cerchio socievole, come il concetto del capriccio e dell’estro costituiva la segreta garanzia di una equilibrata poetica settecentesca), con il suo moralismo non astratto ed irruente, nel placido mondo di una forma raffinata ed estenuata e vi portava una folata di vento capriccioso e sbadato, ma vigoroso e fresco, che rende meno casuale se non meno originale la nascita della «pianta uomo» alfieriana. Cosí l’allegoria muscolosa e nervosa di Aristarco Scannabue («La vita di quella mansueta ed innocua gente, che noi volgarmente chiamiamo letterati, non è, e non può essere gran fatto piena di strani accidenti né troppo feconda di meravigliose varietà. Ma la vita del nostro Aristarco Scannabue è stata una cosa assai diversa, ve l’assicuro. Madre natura lo produsse al mondo in uno dei piú ardenti giorni della canicola...») indica una posizione letteraria nuova ed efficace, estremamente contenutistica, nemica di ogni paludamento retorico e pur lontana, per il suo amore di una concretezza tradizionale, da un’espressione approssimativa e sciatta: «Quando scrivi le tue sublimi meditazioni, lascia scorrere velocemente la penna, lascia che al nominativo vada dietro il suo bel verbo, e dietro al verbo l’accusativo senz’altri rabeschi, e lascia nelle Fiammette e negli Asolani e ne’ Galatei, e in altri tali spregevolissimi libercoli i tuoi tanti conciossiacosaché, e i perocché ecc.». Dove, in questa prosa rapida e robusta, si sente l’ideale barettiano muoversi ad un ritmo interno poco profondo e fondamentalmente giornalistico, ma con un passo saldo e battuto, come semplice e convinto è il piano culturale su cui si pose la Frusta letteraria. Mentre ancora si fondavano colonie arcadiche, questo quindicinale apriva – sul filo di un buon senso chiaro e preciso, ma corposo e ben lontano dal facile razionalismo del primo Settecento cartesiano – un dissidio incolmabile con ogni schematizzazione in favore di una concretezza empirica e morale sotto il cui segno si apre la nostra piú attiva cultura ottocentesca. Con una lingua che nel suo gusto di semplicità risentita vibra fra una rapidità giornalistica e la efficacia alfieriana (formando un modello di prosa polemica rimasto a suggestionare critici e stroncatori piú recenti anche sull’equivoco di una natura tutta aggressiva della critica), la Frusta letteraria portava un senso di impegno letterario superiore al buon gusto e a precise preoccupazioni civili, partendo da una fiducia assoluta in una realtà obbiettiva e sentimentale e giungendo ad una richiesta di rude presenza vitale, magari disadorna e utilitaria, comunque capace di nutrire una letteratura e una poesia non ridotte a lucide bolle di sapone. Tutte le rivoluzioni letterarie infatti cominciano con irruenti esplosioni contenutistiche.

IV. L’Osservatore

Il moralismo sempre vigoroso e rinnovatore, anche nel suo tradizionalismo, della Frusta, si presenta invece tenue ed elegiaco nei giornali di Gasparo Gozzi, e mentre nel Baretti era vitale e quasi eroico nutrimento di una letteratura che giungeva all’assimilazione di Shakespeare e al rifiuto di tutti i travestimenti arcadici, nel poligrafo veneziano era pretesto amato e sentito di un esercizio letterario sottile e vigilato. Quel moralismo del letterato bennato che confina psicologicamente e stilisticamente con un edonismo saggio ed intimo, che può appoggiarsi cosí su di una classica temperanza come su di un leggero pessimismo cristiano e svolgersi con quel tanto di rigidezza che richiede un disegno, traendo un gustoso risultato anche da lievi punte piú acri e risentite. E mai cosí bene come nel Gozzi (il saporoso scrittore rimasto scolasticamente celebre pei suoi tenui sermoni e per i ritrattini dell’ipocrita o dell’egoista) si è sentita la misura del moralismo settecentesco nei suoi toni di società a suo modo perfetta, ma ormai tale che i suoi diluvi piú raffinati portano nelle loro volute il saporino acidulo della novità non barettianamente e alfierianamente rivoluzionaria. E il milieu veneto dove poco piú tardi fioriva l’educata novità del Pindemonte era certamente il piú adatto – nobiliare e commerciale senza vigore ma senza inutilità, cittadino e campagnolo – a quella espressione della moralità settecentesca piú fine e meno incisiva, che furono i giornali di Gaspare. Una fecondità continua, una sottile e poco eloquente grafomania assicurarono l’uscita di ben tre periodici personali[1], in cui il Gozzi mostrò le sue qualità giornalistiche e il suo gusto di calligrafo moralista, di classicista spregiudicato e sensibile ad ogni mondo formato che suscitasse le sue delicate reazioni di stilista e le avviasse ad una composta vibrazione, a disegni bizzarri e leggeri, perfino a lunatiche audacie, ma senza tempesta e clamore. Il severo e biblico Klopstock con la sua Morte di Adamo può alternarsi, in una traduzione che smorza ogni eco troppo prepotente in toni decorosi e pensosi, con una versione dall’illuministico Pope e inserirsi nel Mondo morale, in un fiorire un po’ cartaceo e illustrativo di allegorie poco accese, di fantasie moraleggianti che si svolgono poi con maggiore coerenza nell’Osservatore. Non nella Gazzetta che, come struttura esterna e come gusto cronachistico, è il giornale piú «giornale» del Gozzi, il quale riprendendo i giornali inglesi (e a Venezia era già uscita perfino una Spettatrice addisoniana) volle dare al suo foglio un sapore di utilitarismo, di interesse cittadino, giungendo ad una formula giornalistica valida ancor oggi, ma tutta personale e da letterato: «Il pubblico dee spontaneamente somministrarmi di che impinguare la Gazzetta...»; e spargendovi un’aria di falsa praticità commerciale che subito rivela la mano del letterato, il gusto del calligrafo curioso di vita tagliata in minute immagini levigate, di piccoli documenti capaci di arricchire una scrittura ambigua fra ironia di costume ed edonismo stilistico. Ci sarà cosí nella Gazzetta l’annuncio di «tutto quello ch’è da vendere, da comperare, da darsi a fitto, le cose ricercate, le perdute, le trovate, in Venezia o fuori di Venezia, il prezzo delle merci, il valore dei cambii, ed altre notizie, parte dilettevoli e parte utili all’uomo». E ne esce una piccola cronaca veneziana, cittadinesca, piena di pezzi brevi, magistralmente immediata e raffinatissima, alternata con nozioni diversissime di enciclopedia in un disegno piacevole e letteratissimo: «Rosa moglie di Michele Levantino ebreo, sabbato partorí tre figliole, una delle quali morí subito e l’altre due il lunedí. Per essere quella giornata mi pare che facesse troppo». Gusto di documenti volti a leggeri scherzi o a bizzarri e quasi surrealistici rabeschi («Ne’ passati giorni fu licenziato un cameriere, perché giunto il suo padrone a casa, il quale ha per uso di non cenare, ma di andar subito a dormire, in cambio d’adoperare lo scaldaletto ficcò con grandissima fretta tra le lenzuola la torcia accesa, e cominciò a tirarla su e giú, come se fosse stato lo scaldaletto»), o, sulla base di un tenue realismo, a disegni tra amari e sorridenti e sempre poco impegnativi: «La mattina del passato martedí fu ritrovato un bambino nato di fresco, sopra una via, morto. Sono due possenti deità Amore e Vergogna: il primo è degno di scusa, appresso al mondo, perché almeno accresce il popolo; ma la seconda, giunta a tal segno rende le donne piú crudeli d’ogni bestia».

Nell’Osservatore questo calligrafismo cosí esperto, questo gusto spesso un po’ scialbo di piccola cronaca, cedono di fronte a disegni piú vasti, a un favoleggiare sempre allegorico e moralistico, a una ripresa di quella tradizione moralistica cinquecentesca rinforzata da un nuovo contatto lucianesco, che sarà cosí presente al Leopardi delle Operette. Si stende su questo giornale una nebbiolina di monotonia, di stucchevole saggezza, sovente l’eccesso di allegorie diluite, di chiacchiera veneziana (e quasi un riflesso di diceria cinquecentesca e secentesca ravvivata dalla verve del nuovo secolo) che unisce bene l’immagine del letterato chino sui suoi volumi classici e del nobile conversatore in salotto e in villa, del tepido amante di riforme e del sognante predicatore poco combattivo e fondamentalmente edonistico (si ricordi tra l’altro l’autore delle poesie burlesche edite nel 1938 da Falqui). Un edonismo poco esuberante, capace di malinconia e di auto-ironia («E non sono io nato per isvaporare tutto in desiderio senza effetto?»), che è la base del moralismo e dello stilismo gozziano nella loro soluzione poco lirica, diluita e deliziosa, mossa da punte sensibili che si sfanno in elegante disegno, da un senso di poesia saggio, gustato, costante («se avete desiderio di acquistare qualche agio e bene all’animo vostro la poesia è la manna del cielo»), capace di intuizioni piú libere entro la sua mediocre trama culturale, come nella famosa descrizione della poesia: «Questa scienza piena di invenzioni, di capricci, ora fantastica, ora lieta, ora malinconica, prende l’intelletto e sel porta fuori delle cose terrene, lo leva in cielo, piomba con esso nell’inferno, nell’aria, nelle stelle, per bugigattoli, qua e colà, tanto che non gli dà tempo d’avvedersene delle miserie che lo circondano e diventa come foglia secca, aggirata da uno di que’ venti che soffiano in cerchio, ora spinta all’insú, ora lasciata venir piú bassa, ma finché il vento soffia, non cade piú in terra». Senso di poesia che non rimane nel suo amore per la bella pagina (amore per la pagina nata volta a volta da diversi pretesti), ma si estende, sulla sua base edonistica, ad una via della fantasia alla felicità («Come si ha a fabbricare la felicità? Con una bella, gagliarda e instancabile forza della fantasia»), ad una armonia vitale in cui il suo lieve pessimismo ed il suo umorismo poco pungente trovano una misura che è insieme misura stilistica, annuncio sí di una sintesi pindemontiana e piú luminosamente joubertiana, ma piú ancora sensibile e arguta immagine di una delicata, fragile civiltà letteraria e morale, vissuta ai margini di una rivoluzione nel declinare di un’epoca attiva ed antieroica. «Bisognerebbe fare un bell’accordo di due scuole almeno assieme, sicché cuore e mente facessero come la bocca e le dita col flauto; io vorrei che il cuore soffiasse a tempo, e la mente reggesse il flauto con la sua bella cognizione, e creasse una dolce armonia nel vivere umano... Se l’armonia ch’esce dalla mente e dal cuore ben concordati a sonare ordinatamente, fosse cosa che potesse pervenire agli orecchi, s’empirebbe il mondo di dolcezza, né ci sarebbe musica piú soave di questa».


1 Nel 1760 il Mondo morale e la Gazzetta veneta, e subito alla fine di questa, nel febbraio 1761, l’Osservatore pubblicato fino al 30 gennaio 1762.